Giovanni's house

Monday, May 23, 2016

Metabolismo del collageno

       
   

Il termine collagene deriva da un termine inglese di circa 150 anni fa, indicante l'aspetto gelatinoso che assumevano il tessuto connettivo di quasi tutte le forme viventi, incluse il corallo e le anemoni di mare, se portate ad ebollizione. Questo dato dimostra l'importanza dal punto di vista filogenetico del collageno per gli esseri viventi multicellulari. 
Il tessuto connettivo è appunto il cemento che unisce differenti tipi cellulari a formare gli organi complessi che permettono la vita agli organismi pluricellulari.
I componenti fondamentali del tessuto connettivo sono la componente cellulare ( fibrociti e fibroblasti ) e la matrice extracellulare composta  dal collagene, da proteine non collageniche, e dai fattori di crescita in grado di modulare l'attività delle cellule circostanti.

Al momento esistono circa 28 tipi di collageno descritti nell'uomo.
La molecola del collagene è formata da una proteina la cui struttura primaria è caratterizzata dalla presenza di uno o più domini proteici che permettono di assumere la tipica conformazione spaziale della tripla elica. 
La " tripla elica " è in definitiva ciò che caratterizza le fibre collagene ed è determinata dalla presenza di una seguenza aminoacidica contenente la caratteristica tripletta:

                                                                X - Y - Gly

Dove la glicina è seguita in circa un terzo dei casi dalla Prolina ( X ) e dalla Idrossiprolina ( Y ). Ciascuna catena contenente tale struttura forma un'elica levogira. 
Ciascuna catena proteica o protomero forma un'elica levogira, è assemblata con altre due catene similari, in modo da formare una proteina a triplice elica destrogira per formare una molecola di pro-collagene. 
In tale molecola tripeptidica i residui di Glicina sono posti al centro della struttura a triplice elica, mentre i residui di Prolina e Idrossiprolina sono disposti in modo da esporre il loro radicale ( R ) lateralmente alla struttura aminoacidica ( CO-CH-NH ).
Pertanto prima di essere assemblato ciascun protomero deve venire sottoposto a reazioni di idrossilazione a livello del reticolo endoplasmatico rugoso dei fibroblasti. Qui sono presenti gli enzimi chiamati idrossilasi in grado di trasferire un ossidrile su un amni acido di Prolina o di Lysina. Avremo quindi :

4 Idrossi Prolina idrossilasi tipo 1 ubiquitario e tipo 2 presente nei condrociti, negli osteoblasti, nelle cellule endoteliali.
3 Idrossi Prolina idrossilasi è formata da un complesso enzimatico formato da Ciclofillina B, CTRAP, P3H1 ne esistono 5 isoenzimi, e la sua mutazione è responsabile di due forme ereditarie di Osteogenesi Imperfetta tipo 7 e 9.
Idrossi Lisina idrossilasi ne esistono 4 isoenzimi. Una rara forma di Osteogenesi Imperfetta tipo 8 è legata al difetto nella sintesi del tipo 1 ( LH1 ) telopetide lisil ossidasi chiamata anche Sindrome di Bruck. Il tipo 2 ( LH2 ) anche conosciuta come procollagene lisina 2 ossoglutarato 5 diossigenasi (PLOD-2) è stata identificata sul cromosoma 3. L'uso enzima tipo 3 ( LH3 ) è un enzima multifunzionale in grado di svolgere anche attività galattosil transferasica e glucosil transferasica. La preponderanza di aldeidi di idrossilisina a livello dei telopetidi del collagene osseo assicura che si formino legami stabili tra catene Alfa adiacenti. Nell'osso si forma idrossiallisina e ketoimine che danno origine ai legami crociati del Piridinio, nella cute l'allisina dà origine ai Pirroli.
Galattosiltransferasi 
Glucosiltransferasi 
Protein disulfide isomerasi agisce anche come subunità beta del tetramero prolil idrossilasi alfa2 beta2

Tali reazioni richiedono alfa cheto glutarato, ione ferroso, ossigeno molecolare ed acido ascorbico. L'utilizzo di alfa cheto glutarato è abbastanza insolito tra le idrossilasi, pertanto tali enzimi vengono anche chiamate 2 oxo glutarato Ossidasi.
Esse infatti non richiedono il gruppo protoemo come gruppo prostetico per legare la molecola di ossigeno. 
Tali enzimi sono in grado di legare lo ione ferrico all'ossigeno semplicemente con l'aiuto dei prodotti del Ciclo di Krebs ed in particolare dell'alfa cheto glutarato e l'Acido piruvico. 
Gli HIFs Alfa e Beta ( Hipoxia Inducing Factors ) sono regolati dalle 2 oxo glutarato deidrogenasi, il primo indotto dagli stati di ipossia tissutale, il secondo attivo in modo constitutivo nelle cellule. Pertanto possono essere considerati enzimi a basso consumo energetico, in grado di utilizzare i soli prodotti della glicolisi aerobica come donatore di energia.
Tali enzimi, localizzati nella matrice mitocondriale, catalizzano reazioni di decarbossilazione ossidativa del substrato keto-acido come l'Acido piruvico o l'alfa cheto glutarato. I fattori indotti dall'ipossia possegono dei siti che sono idrossilati da tali enzimi a livelli dell'aminoacido Prolina. L'idrossilazione ne stimola la degradazione proteosomica. Nei mammiferi tali enzimi entrano a far parte della sintesi del collagene e della biosintesi della carnitina.

Tutti i residui di lisina idrossilati vengono poi attaccati da altri enzimi che sono le glucosiltransferasi o le galattosiltransferasi. Tali enzimi possono agire sulla proteina solo se non è ancora in forma elicoidale  e più sono corti i peptidi sui quali agiscono più facilmente agiscono  sugli aminoacidi.
Sembra poi evidente che i ponti disulfuro interpeptidici si possono formare solo dopo che la struttura elicoidale del procollagene maturo si è assemblata a formare la tripla elica. La struttura elicoidale si può formare solo a livello dell'apparato del Golgi o del reticolo endoplasmatico liscio. Solo a questo punto potrebbero agire le protein disulfide isomerasi, enzimi in grado di formare ponti disulfuro tra le molecole di pro-collageno.
A livello extracellulare il pro-collageno è trasformato in collagene maturo con l'intervento di almeno due enzimi a livello extracellulare:
la procollageno aminoproteasi in grado di rimuovere gli aminopeptidi all'estremità N terminale del collagene ( ADAMs A Disintegrin And Metalloproteinase )
la procollageno corbossipeptidasi che rimuove l'estremità C-terminale con l'aiuto di calcio.


Le molecole di collagene maturo spontaneamente si assemblano in fibrille con le caratteristiche fisico chimiche e le esatte dimensioni di quelle osservate al microscopio elettronico.
Da un punto vista fisicochimico, la struttura ricca di Idrossiprolina preceduta da Prolina non idrossilata a elica levogira è essenziale per rendere stabile la proteina a triplice elica destrogira del collagene.
Dallo studio della nefropatia diabetica gli studiosi scroprirono che le molecole che formano il collagene maturo sono di tipi differenti e individuarono negli anni '60 le catene α1 e α2 che sono responsabili della formazione di molecole di collageno detto "Fibrillare".


Al momento attuale 6 tipi di molecole α sono state identificate, codificate dai rispettivi geni:
α 1 localizzato sul cromosoma  13q 21.3 - 22
α 2 localizzato sul cromosoma  13q 21.3 - 22
α 3 localizzato sul cromosoma.  2 q 35 - 37
α 4 localizzato sul cromosoma   2 q 35 - 37
α 5 localizzato sul cromosoma   X q 26 - 48
α 6 localizzato sul cromosoma   X q 26 - 48


                                                              Collagene fibrillare
Il collageno fibrillare è stato il primo ad essere scoperto dagli studi di Nageotte nel 1920 che in seguito alla descrizione istologica della natura fibrillare della matrice extra cellulare del tessuto connettivo dimostrò la sua insolubilità in acqua, ma la formazione di un agglomerato gelatinoso ( da cui prende il nome ) ma la sua solubiltà negli acidi. 
Con l'utilizzo della diffrazione ai raggi X e della microscopia elettronica tali fibre solubili in acido vennero identificate come molecole di collageno assemblate in uno specifico ordine di modo che ciascuna molecola di collagene era distante dalla seguente di 40 nm, ma si sovrapponeva lateralmente ad un'altra fibra di collagene per 300 nm. Inoltre ciascuna fibra di collagene era sfasata lateralmente con la vicina di 67 nm, in modo che una sorta di scalini della profondità di 67 nm si formavano tra una fibra di collagene e quella che scorreva parallela lateralmente.
La lunghezza di ciascuna fibra collagenica risultava quindi pari a circa 400 nm e si sovrapponeva per circa 1/3 della sua lunghezza a quella che scorreva parallela ad essa. 
Alla microscopia elettronica questa struttura era visivamente evidente dalla bandeggiatura di una struttura altamente organizzata del collageno di tipo I, dove ciascuna fibra era distanziata da quella che scorreva ad essa parallela di circa 100 nm ( 67 + 40 nm ), lasciando 300 nm della molecola di collagene sovrapposta a quella adiacente.

Ciascun protomero al polo N-terminale ha una tripla elica a 7S, seguito da una struttura collagenica a tripla elica nella porzione mediana della molecola, e finalmente al lato C-terminale da un trimero non-collagenico ( NCI ). La caratteristica più importante è l'interruzione della caratteristica tripletta Glicina-X-Y nelle porzioni C- terminali e N-terminali della molecola. Tale caratteristica permette alla struttura una volta assemblata flessibilità, permettendo di formare " looping e supercoiling ".

Ai collageni fibrillare appartengono i collageni tipo I , II , III , V , XI , XXVI , XXVII caratterizzati dalla struttura fibrillare microscopicamente descritta più sopra.
Il tipo I è formato da complessi eterotrimerici di 2 catene α1 e 1 catena α2 è presente per la maggior parte nel tessuto connettivo, e nel tessuto osso maturo. La mutazione spesso nei residui di glicina è responsabile di gran parte delle forme conosciute di Osteogenesi Imperfetta ( tipo 1, 2, 3 e 4 )
Il tipo II è formato da complessi homotrimerici di 3 catene α1 è presente nella matrice extra cellulare della cartilagine.
Il tipo III è formato da complessi homotrimerici di 3 catene α1 è presente associato all'elastina nel tessuto elastico.
Il tipo V è formato da complessi eterotrimerici di 1 catena α1, 1 catena α2, 1 catena α3 o una catena α4.
Il tipo IX è formato da complessi eterotrimerici di 1 catena α1, 1 catena α2, 1 catena α3.
Il tipo XXIV è formato da complessi homotrimerici di 3 catene α1, è presente nei centri di ossificazione delle ossa craniofaciali, degli arti e delle vertebre.
Il tipo XXVII è formato da complessi homotrimerici di 3 catene α1, è presente negli abbozzi cartilaginei degli elementi scheletrici.

                                         Collagene non fibrillare, o solubile o globulare.
Si identificano con tale termine le molecole di collagene facilmente solubili in acqua. Queste molecole sono state identificate in seguito agli studi su particolari malattie ereditarie come la Sindrome di Goodpasture e la Sindrome di Alport.
Nel 1927 Arthur Cecil Alport descrisse una sindrome caratterizzata da sordità sensitivo - neurogena in una famiglia che era pure affetta da nefropatia familiare, lenticono della capsula ottica anteriore, retinopatia, e talvolta ritardo mentale e leiomiomatosi.
La causa della Sindrome di Alport rimase sconosciuta fino al 1990 quando Trygvanson scoprì una mutazione nel gene che codifica per il Collagene tipo IV ed in particolare nel gene per la catena α5. Oggi più di 300 mutazioni in questo gene sono state identificate e tre forme geneticamente differenti della Sindrome di Alport sono state identificate rispettivamente legate a mutazioni dei geni che codificano per la catena α3, la catena α4, la catena α5 del collageno tipo IV.
Interessante notare che mutazioni eterozigoti per le forme di Alport α3 e α4 sono associate solo a piccole alterazioni della filtrazione renale che sono in grado di causare solo piccole anomalie della funzione renale.

La Sindrome di Goodpasture deve il suo nome ad Ernest W. Goodpasture che nel 1919, mentre serviva come Ufficiale Medico nella Marina Militare assegnato all'Ospedale Navale Chelsea, vicino a Boston, descrisse un paziente di 18 anni affetto da emorragia polmonare associata a glomerulonefrite rapidamente progressiva, e fatale; malattia che lo stesso Goodpasture attribuì ad una grave epidemia influenzale. 
Tale osservazione clinica venne trascurata finché Stanton e Tange la riscoprirono nel 1958 e le darono l'eponimo di Goodpasture.
Ora indicata l'associazione di vasculite e porpora polmonare associata a nefrite viene identificata con tale eponimo, qualsiasi ne sia l'eziopatogenesi. 
Conosciamo differenti meccanismi patogenetici che stanno alla base di tale associazione sindromica, tanto che si possono distinguere disordini immuno-mediati, malattie infettive e disordini vari. Tra questi ricordiamo:
anticorpi anti membrana basale glomerulare ( MBG ) o Malattia di Goodpasture

Sindromi di Goodpasture ( porpora polmonare e nefropatia )
la poliangioite microscopica ( con anticorpi antimieloperossidasi ANCA )
granulomatosi con poliangioite ( detta di Wegener - con anticorpi anti proteinasi-3 ANCA )
vasculite granulomatosa eosinofilica ( detta di Churg-Strauss )
porpora di Henoch-Schönlein
sindrome di Behçet
lupus eritematoso sistemico ( con ANCA, anticorpi antifosfolipidi, anticorpi anti membrana basale glomerulare )
nefropatia da IgA
crioglobulinemia mista IgG e IgM
tromboembolia polmonare con coesistente glomerulopatita membranosa
sindrome emolitico-uremica ( con glomerulonefrite trombotica microangiopatica ).

Sicuramente anche se la forma legata alla presenza di autoanticorpi diretti contro la membrana basale glomerulare è una delle forme meno comuni di tale sindrome, bisogna considerare questa forma per comprenderne l'importanza nella scoperta del collageno di tipo non fibrillare.
Lerner RA ( 1967 ) trasferì passivamente in primati anticorpi anti membrana basale glomerulare di pazienti affetti da malattia di Goodpasture e dimostrarono che da soli questi autoanticorpi potevano causare la malattia. 
In seguito il target di tali autoanticorpi venne identificato il tratto non colagenico-1 ( NC-1 ) della catena α3 del collagene tipo IV. Ulteriori studi rivelarono che il collagene di tipo IV è formato da una famiglia di tre proteine formate dall'associazione di tutte e sei le molecole di collegeno finora conosciute:
Collageno IVα1 o embrionale formato dall'associazione di 2 catene α1, e 1 catena α2
Collagene IVα2 o adulto formato dall'associazione di1 catena α3, 1 catena α4, e 1 catena α5
Collagene IVα3 formato dall'associazione di 2 catene α5 e 1 catena α6.
Le proteine del collageno tipi IVα1 all'estremità N- terminale ha numerose oligosaccaridi legati a residui di azoto, e numerosi disaccaridi lungo la struttura collagenica centrale vera e propria. Come accennato tale molecola è presente solo nel tessuto embrionale.
Al contrario il collagene tipo IVα2 possiede parecchi ponti disulfuro tra le varie molecole che lo compongono anche a livello delle porzioni N-terminali 7S che a livello N-terminale NC1, tali interazioni intramolecolari danno la tipica struttura alla molecola matura, che è tipica dell'organismo adulto ed è in grado di formare la rete extracellulare della membrana basale presente nell'organismo adulto.
Mentre l'associazione a livello del l'estremità N-terminale porta direttamente alla formazione della caratteristica tripla elica destrogira e alla susseguente associazione termino-terminale delle molecole di collagene, a livello dell'estremità C-terminale le strutture non collageniche formano legami tra due protomeri di collageno vicini in modo da formare un esamero NC1. La maggior parte degli esameri NC1 è rinforzata da nuovi ponti sulfiliminici che devono essere dissociati perchè si possano legare gli autoanticorpi.
Pertanto è opinione diffusa che gli autoanticorpi siano diretti contro gli esameri α3,4,5,NC1 presenti sia nella Sindrome di Alport sia nella Malattia di Goodpasture. Sarebbe la dissociazione di tali strutture esameriche presenti a livello dell'estremità C terminale della molecole di collagene tipo IV la causa scatenante la reazione immunitaria diretta contro i neo antigeni formatisi a livello della membrana basale.
La malattia di Goodpasture risulterebbe pertanto una "conformeropatia" vale a dire una malattia scatenata dal cambiamento di conformazione del collageno della membrana basale, come probabilmente altre malattie autoimmunitarie quale il Morbo di Basedow , il Lupus e l'Artrite Reumatoide.
Semplificando forse in maniera eccessiva le malattie del tessuto connettivo in genere, anche chiamate connettiviti o collagenopatie potrebbero essere riviste alla luce di quanto prima esposto come disordini del metabolismo del collageno, in grado di scatenare reazioni immunitarie con danno tissutale conseguente e deficit funzionale degli organi colpiti.






                                                             Bibliografia


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Sykes B, Francis MJO, Smith R. Altered relation of two collagen types in osteogenesis imperfecta. N Engl J Med 1977;296:1200-3.

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Hudson BG, Tryggvanson K, Sundaramoorthy M et al. Alport's syndrome, Goodpasture's syndrome, and type IV collagen. N Engl J Med 2003;348:2543-56.

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Salant DJ. Goodpasture's disease - New secrets revealed. N Engl J Med 2010;363:388-91.

Sunday, May 8, 2016

L'uso degli oppiacei nella terapia del dolore cronico non oncologico


          
  





Trattare il dolore è da sempre uno dei principali obbiettivi della professione medica e si può dire che dall'epoca di Ippocrate, il bravo medico si adoperava per prima cosa, per lenire dal dolore i propri pazienti, prima ancora di capire l'origine dello stesso.
La farmacologia e le tecniche chirurgiche hanno dato un importante aiuto all'opera del Medico nel tentativo di alleviare le sofferenze dei propri pazienti. Tuttavia l'uso dei farmaci antidolorifici per eccellenza gli opioidi, dopo essere stato per così dire avallato anche nel trattamento del dolore cronico non oncologico, tanto da produrre cambiamenti legislativi sulle modalità di prescrizione, viene ora messo in discussione specie nei Paesi Industrializzati per l'aumento dei casi di dipendenza, come dimostrano i recenti fatti di cronaca di " morti " eccellenti di personaggi del mondo dello spettacolo associate spesso all'uso di antidolorifici.

La valutazione dell'intensità del dolore mediante scale validate universalmente è il primo passo verso una scelta del giusto analgesico.
La scala VAS ( VISUAL ANALGOGIC SCALE ) costituita da una linea , lunga 10 cm, che visivamente rappresenta l'ampiezza del dolore. Tra le due estremità della linea corrispondenti a " nessun dolore " e " il più forte dolore immaginabile " abbiamo la possibilità di individuare differenti gradi intermedi. Il paziente deve indicare  sulla linea l' intensità del dolore avvertito. Richiede al paziente capacità visiva e motoria.

La scala di WONG-BAKER, costituita da una serie di disegni che raffigurano le espressioni del volto corrispondenti a diversi gradi del dolore ( sorridente, in lacrime ecc ). La scala è mostrata al paziente che deve indicare la faccia che a suo parere meglio esprime l'intensità del dolore provato.

La scala FLACC utile nei soggetti che per età, deficit motori, o deficit cognitivi non sono in gr,ADI di dare una valutazione soggettiva del dolore si ricorre ad una valutazione oggettiva di parametri come l'espressione del volto, il movimento delle gambe, la posizione del corpo, la presenza o meno del pianto, la consolabilità. Ad ognuno di questi 5 fattori si assegna un punteggio che va da 0 a 2. Dove 0 è il dato più positivo e 2 il dato più negativo. Il valore del punteggio complessivo ottenuto, scaturito dalla somma delle 5 valutazioni, quantifica l'intensità del dolore in base ad un punteggio da 0 a 10.
( FLACC : Face, Legs, Activity, Cry, Consolability )

La scala NOPPAIN utile nei soggetti che per età, deficit motori, deficit cognitivi non possono fornire una stima soggettiva del dolore si ricorre ad una stima oggettiva da altre di un operatore esterno. La scala utilizzabile soprattutto nei paziente affetti da demenza, valuta la presenza di comportamenti o comunicazioni verbali che suggeriscono dolore durante esecuzione di specifiche manovre assistenziali. Il punteggio totale varia da 0 a 55 e un punteggio superiore a 3 indica la presenza di dolore da sottoporre a un esame più approfondito.

La valutazione del dolore permette di scegliere i farmaci analgesici corretti relativamente a quelli a nostra disposizione.

Con gli anni '60 abbiamo assistito ad uno uso sempre crescente di farmaci antidolorifici dapprima gli steroidi, scoperti negli anni '50 e sintetizzati in laboratorio con svariata capacità antidolorifica e antinfiammatoria, ma gravati da importanti effetti collaterali di tipo metabolico. 

FANS
Altre molecole a struttura non steroidea antinfiammatorie ( FANS : Farmaci Antifiammatori Non Steroidei ) con attività antidolorifica sono state sintetizzate nei laboratori nell'intento di sollevare i pazienti dal dolore senza arrecare importanti danni. Tutti accumunati dallo stesso meccanismo d'azione, vale a dire dall'inibizione dell'enzima Ciclossigenasi ( COX ), che permette la trasformazione dell'acido arachidonico in prostaglandina H2. I FANS vengono anche classificati in base alla loro azione specifica sul tipo di Ciclossigenasi. Infatti esistono una Ciclossigenasi constitutiva (COX-1) ed una Ciclossigenasi inducibile in caso di danno tissutale ( COX-2). Tutti i FANS agiscono variamente su entrambi gli isoenzimi e il rapporto di inibizione (COX1/COX2) è un indice della loro azione antinfiammatoria.

Indolici come l' Indometacina fortemente gastrolesiva.
Fenilacetici come il Diclofenac forse tra i più utilizzati nella pratica clinica.
Fenamici come l'Acido Flufenamico e l'Acido Meclofenamico.
Acidi propionici come Ibuprofene, Ketoprofene, Naprossene. Sostanze assai efficaci e meglio tollerate a livello gastrointestinale. Assorbiti rapidamente a livello orale sono secreti per via renale. L'ibuprofene è in genere considerato quello meno gastrolesivo.
Pirazolonici come la noramidopirina o metamizolo, gravato da importanti interazioni farmacologiche con antidiabetici orali, antipertensivi e diuretici.
Oxicam come il piroxicam, meloxicam, lornoxicam che necessitano di una sola somministrazione giornaliera.
Nimesulide molto attivo in particolare per i tessuti molli, ma gravato da notevole epatotossicità, qualora si superi il dosaggio raccomandato di 100 mg al dì
Salicilati come l'Acido acetilsalicilico che oltre a possedere un effetto antinfiammatorio, antidolorifico è pure un potente antipiretico e un buon anti aggregante piastrinico a basse dosi pari anche a 75-100 mg al dì. L'effetto antinfiammatorio invece si esplica a dosi pari a 1 gr al giorno.
COXIBs: farmaci altamente selettivi per la COX-2, sono stati messi sul mercato farmaceutico circa 10 - 15 anni or sono due molecole con indicazione nel trattamento principalmente del dolore osteoarticolare in particolare nell'artrosi, nell'artrite reumatoide, nella spondilite anchilosante, nella gotta. Essi sono il celecoxib e etoricoxib.


I FANS sono tuttavia gravati da importanti effetti collaterali quali disturbi a carico dell'apparato digerente come epigastralgie, nausea, ulcere gastroduodenali. L'uso dei FANS pertanto richiede l'utilizzo concomitante di farmaci inibitori di pompa protonica, gli unici antiacidi ad essere validati per tale utilizzo, cosa che non è stato dimostrato per gli anti-istaminici come la ranitidina e la famotidina. Inoltre possono creare danno ai pazienti affetti da malattia infiammatoria intestinale cronica. A livello renale bloccando le prostaglandine E2 riducono la perfusione renale portando ad insufficienza renale. I FANS sono inoltre associati ad aumentato rischio cardiovascolare, per i COXIBs con un aumento del rischio di infarto miocardico, riducendo l'effetto dei farmaci antipertensivi, dei diuretici, oltre ad aggravare il grado di insufficienza renale. Oltre a tossicità epatica, tali farmaci sono gravati dalla possibile comparsa di eruzioni cutanee, come prurito, rash, orticaria.
Particolare cautela è richiesta poi nell'uso di tali farmaci nei pazienti in trattamento con anticoagulanti orali, sia per l'aumentato rischio di sanguinamento gastrointestinale, sia per lo spiazzamento degli anticoagulanti dal legamento proteico con variazioni dell'INR non prevedibili.
I FANS hanno invece il loro maggior utilizzo in tutte quelle manifestazioni a carico dell'apparato muscolo-scheletrico sostenute dalla presenza di fenomeni di tipo infiammatorio. Possono essere utili inoltre per sedare dolori post-partum, in seguito a piccoli interventi pstchirurgici, in caso di cefalee, dolori mestruali, odontalgie.
Alcuni prodotti per via iniettiva come il Diclofenac, il Ketoralac trovano impiego anche nel dolore di origine postraumatica, postoperatorio, o da spasmo della muscolatura liscia come nelle coliche renali.

PARACETAMOLO
Per tali motivi l'anti dolorifico per eccellenza è da considerare il Paracetamolo o acetaminofene le cui spiccate azioni analgesiche, e antipiretiche, conosciute da oltre un secolo, hanno un buon profilo di efficacia e tollerabilità tale da renderla una delle molecole ore più utilizzate al mondo in tale categoria farmacologica.
Il Paracetamolo ha un ottimo assorbimento per via orale e le numerose formulazioni farmacologiche disponibili in commercio, inclusa quella parenterale disponibile solo per uso ospedaliero come pro-paracetamolo, fa di tale farmaco la molecola di prima scelta nel trattamento del dolore cronico lieve moderato.
Il Paracetamolo ha in comune con i FANS l'effetto antidolorifico e antipiretico, ma non l'effetto antinfiammatorio, e la sua azione si esplica principalmente a livello del sistema nervoso centrale, nelle vie neuro regolatrici delle afferenze doloriche, dove interferisce con le vie degli oppioidi e della serotonina.
Dal punto di vista farmacocinetico raggiunge la sua concentrazione massima nel plasma dopo 30-60 minuti e ha una emivita plasmatica di 2 ore. Il dosaggio massimo consigliato è di 4 grammi al giorno suddiviso in 4 dosi di 1 grammo ciascuna. 
Per l'FDA la soglia di epatotossicità del farmaco è ben al di sotto dei 4 gr, intorno ai 3 gr, dove è possibile già evidenziare la presenza di epatotossicità, tale da indurre " necrosi epatica fulminante " caratterizzata da nausea, vomito, dolore addominale, ed aumento delle transaminasi, della bilirubina specie in soggetti dediti all'alcool. Come antidoto in tali casi è di norma utilizzata l'acetil cisteina anche per via orale, in grado di risolvere e ripristinare la funzionalità epatica danneggiata da un uso occasionale di paracetamolo.


Farmaci adiuvanti
Nel dolore cronico lieve-moderato vengono utilizzati spesso in associazione farmaci adiuvanti. Questi ultimi sono farmaci che agiscono in presenza di modificazioni della fibra nervosa periferica come la Carbamazepina e l'oxcarbamazepina ( nella nevralgia del trigemino ), gli antidepressivi triciclici, gli anestetici locali come la lidocaina.
Farmaci che agiscono in presenza di sensibilizzazione dei neuroni spinali per afferenze nocicettive e riduzione dei sistemi inibitori come i gabapentinoidi ( gabapentin e pregabalin ), clonazepam, antidepressivi triciclici e non.
Farmaci che agiscono in presenza di flogosi delle vie nervose dove il ruolo dei recettori periferici delle piccole terminazioni nocicettive del perinervio hanno grande importanza. Questi sono i corticosteroidi.

Oppiacei
Da sempre è comune convinzione che i pazienti affetti da dolore persistente di natura non oncologica e sottoposti a trattamento con oppiacei, dovessero inevitabilmente sviluppare una dipendenza.
Tale convinzione venne messa in dubbio negli anni '60, quando alcuni studiosi evidenziarono che, in presenza di benefici accettabili, i rischi di una tossicodipendenza in seguito a trattamento con oppiacei erano minimi o pressoché nulli.
Tale ipotesi venne avvalorata da studi di ricerca di base sul dolore cronico non oncologico  Tali studi dimostravano che l'uso medicale degli oppiacei non creava dipendenza qualora fosse presente dolore. Infatti, se in situazione di dolore si somministra un oppiaceo, questo di lega tutto sui recettori siti nel corno dorsale del midollo pronti a modulare l'input doloroso; in caso contrario l'oppiaceo va a interferire sul sistema dopaminergico a livello del nucleo accumbens con il rischio di innescare meccanismi che portano alla tossicodipendenza.
Il loro utilizzo è stato ampiamente rivisto recentemente è regolamentato dalla Legge 38 che permette la prescrizione di farmaci oppiacei, utilizzati per la terapia del dolore su ricettario del Servizio Sanitario Regionale, per un fabbisogno di 30 giorni, con l'avvertenza di identificare lo stato di necessità del paziente con la sigla TDL ( Terapia Del Dolore ).

Il dolore cronico non oncologico ( CNCP ) di origine neuropatica o propriocettiva è una sorgente di importante morbidità. Il dolore cronico non oncologico è presente in seguito ad interventi di chirurgia maggiore, come l'impianto protesico di ginocchio o di anca ( dal 10 al 50% dei pazienti ) in circa l'8,2% dei diabetici. La lombalgia ( 15% degli USA ), l' osteoartrite sono due cause molto comuni di dolore cronico non oncologico.

                                    
Localizzazione dei recettori Mu per gli oppioidi.
Tali recettori sono localizzati nel cervello umano principalmente nel talamo, nella sostanza grigia periacqueduttale, nell'insula, nel giro cingolato anteriore dove sono coinvolti nella percezione del dolore. Al contrario nell'area tegmentale ventrale e nel nucleo accumbens tali recettori sono coinvolti nella sensazione di ricompensa e benessere. A livello dell'Amigdala sono implicati nella reattività emotiva al dolore, mentre nel midollo allungato regolano il centro del respiro. A livello delle corna posteriori del midollo estinte la più alta concentrazione dei recettori Mu per gli oppioidi e qui modulano la percezione del dolore, mentre a livello del piccolo intestino regolano la motilità intestinale.

Gli analgesici oppiacei sono ampiamente usati nel trattamento di tale tipo di dolore mentre effetti collaterali a breve termine includono la sedazione, declino cognitivo, depressione respiratoria, l'overdose, la dipendenza farmacologica, pertanto è importante che la prescrizione di opioidi sia adeguata alle necessità di ciascun individuo.
Tuttavia mentre gli analgesici oppioidi sono in grado di alleviare il dolore non oncologico acuto senza causare danni, il beneficio di tali farmaci nel trattamento del dolore cronico non oncologico non ha ancora chiare linee guida di consenso sul loro utilizzo.

Due fattori sono universalmente evidenti:
Gli analgesici oppioidi sono ampiamente e impropriamente prescritti, tanto che il loro uso ha creato negli USA una epidemia vera e propria di morti da overdose e dipendenza da oppiacei.
La principale fonte di tali farmaci oppioidi sono le prescrizioni mediche.
Per tali motivi le associazioni mediche hanno iniziato a porsi il problema di regolamentare la loro prescrizione, in particolare per quanto concerne la terapia del dolore cronico non oncologico.
Non sembra affatto universalmente accettato che la presenza di dolore protegga i pazienti dallo sviluppare dipendenza dall'utilizzo farmacologico di oppioidi. Studiosi hanno dimostrato che la prescrizione di medicamenti contenti oppiacei per il dolore acuto è la maggior fonte di misuso di farmaci.


Gli oppioidi differiscono per la loro affinità e selettività di legame per i recettori Mu, in quanto possono levare anche i recettori kappa e delta o anche a recettori per altri neurotramsmettitori. L'effetto degli oppioidi, in particolare modo quello esplicato sul nucleo accumbens e nell'area tegmentale ventrale che sono responsabili della sensazione di ricompensa e benessere , sono maggiormente accentuate quando i farmaci sono rilasciati rapidamente a livello cerebrale. Per tale motivo la FDA ha incoraggiato e approvato formulazioni che evitino l'uso iniettivo delle formulazioni farmaceutiche di oppioidi.

Molti medici non distinguono tra dipendenza fisica e psichica. La prima è dovuto al fenomeno della tolleranza farmacologica è legata alla down regalati in recettoriale  dei recettori a livello intracellulare.
La dipendenza psichica c'è solo in una piccola parte dei soggetti esposti agli oppioidi, si sviluppa lentamente non termina semplicemente smettendo di utilizzare gli oppioidi, ma ci può essere un elevato rischio di ricaduta anche per parecchi anni senza adeguato trattamento.
Noi non siamo in grado di conoscere la dose totale di oppioidi in grado di dare dipendenza psichica, ma sappiamo che il rischio di procurarla varia sostanzialmente tra le persone, che la variabilità genetica rende conto almeno del 35 - 40% del rischio associato alla dipendenza psichica e che gli adolescenti sono a maggior rischio di svilupparla in quanto il loro cervello ha ancora una elevata neuroplasticita e il loro lobo frontale non ancora del tutto sviluppato ( parte del cervello necessaria per un autocontrollo adeguato ).
Pertanto il rischio di sviluppare dipendenza da oppioidi negli adolescenti è maggiore che negli adulti.

Per molto tempo si è pensato che la presenza di dolore fosse sufficiente per evitare la dipendenza da oppioidi. Tuttavia studi epidemiologici hanno dimostrato che la dipendenza psicologica da oppioidi in pazienti affetti da dolore cronico non oncologico sia possibile e presente.
È quindi necessario attuare sforzi per prevenire l'emergenza di dipendenza iniziate durante il trattamento da parte di medici di medicina generale. È necessario quindi valuatare attentamente il rischio di dipendenza farmacologica con opportune scale di valutazione. Monitorare regolarmente sulle urine la concentrazione dei farmaci ed inviare ai centri di terapia del dolore tali soggetti, considerati a rischio.
Si suggerisce pertanto di non superare le 8 settimane di trattamento con oppioidi per pazienti affetti da dolore cronico non oncologico, tenere conto che aumentando il dosaggio ( > 100 MME ), la durata e forse l'uso di opioidi a lunga durata d'azione può facilitare l'insorgere a di dipendenza.








Per ottenere la dose equivalente alla Morfina dei comuni opioidi:

Buprenorphine cerotti                 MME  x 12,6
Buprenorphine cp                       MME. x 10
Codeine                                    MME x 0.15
Dihydrocodeine                          MME X 0,25
Fentanyl cerotti.                         MME x. 2,4
Fentanyl ev.                               MME x 100
Fenatnyl os.                               MME x 0,13
Hydrocodone.                             MME x 1
Methadone.                                MME. x 3
Oxycodone                                 MME. x 1.5
Pentazocine.                               MME x 0,37
Tapentadolo.                               MME. x 0,4
Tramandolo.                                MME. x 0,1


Bibliografia

Volkow ND, McLellan AT. Opioid abuse in chronic pain -  Misconception and mitigation strategies. N Engl J Med 2016;374:1253-63.

Kornetsky C, Bain G. Morphine: single dose tolerance. Science 1968;162:1011-2.

Sunday, April 3, 2016

Nuove strategie terapeutiche nella trombosi venosa profonda

         
      




La tromboembolia venosa è la terza principale causa di morte vascolare, con una elevata incidenza specie tra gli anziani.
L’incidenza aumenta dall’ 1 su 10.000 persone per anno tra le persone con meno di 40 anni a quasi 1 per 100 persone per anno tra gli ottantenni e ultra ottantenni ( 80 anni ).
Complessivamente più di un terzo dei casi di TVP si presenta in persone con piu’ di 60 anni.
Si stima che all'incirca l'embolia polmonare sia responsabile di 100.000 - 180.000 morti per anno , pur essendo la causa di morte più facile da prevenire nei pazienti Ospedalizzati.
I sopravvissuti all'embolia polmonare spesso hanno come feliquati  una ipertensione polmonare cronica tromboembolica o una sindrome postrombotica.
La prima si manifesta con dispnea, mancanza del respiro, specie sotto sforzo; mentre la sindrome postrombotica anche chiamata " insufficienza venosa cronica " è caratterizzata dalla presenza di danno delle valvole di Valsalva presenti nei vasi venosi degli arti inferiori, con conseguente rigonfiamento a carico delle caviglie e del calcagno e dolore urente alle gambe in toto, in particolare dopo prolungata stazione eretta. In situazioni di grave compromissione del letto vascolare venoso possiamo anche avere ulcere cutanee specialmente localizzate a livello dei malleoli  laterali.
La formazione di trombi a livello arterioso coinvolge principalmente l’omeostasi endoteliale, mentre la formazione di trombi a livello venoso coinvolge principalmente l’omeostasi piastrinica e dei fattori o cellule circolanti, monociti, fattori della coagulazione, fattore tissutale, senza che necessariamente si debba pensare a danno-attivazione endoteliale come primum movens.


                                      

Eziologia
Le nuove conoscenze di fisiopatologia molecolare hanno permesso di chiarire importanti concetti che stanno alla base del processo di formazione del trombo.sia questo a livello venoso o arterioso

Il concetto basilare è naturalmente quello che vede le piastrine circolanti che sono reclutate sulla superficie del vaso danneggiato, dove esse diventano il principale componente dello sviluppo del trombo. Inoltre i fattori della coagulazione  ed in primo luogo il “ fattore tissutale “ prendono pare alla formazione a partire dal fibrinogeno circolante dei monomeri fibrina.
Da un lato fattori che contrastano la formazione dei trombi sono presenti sulla superficie endoteliale e sono:
la produzione di monossido d’azoto ( NO )
Il rilascio di prostacicline
la formazione di enzimi ectonucleotidosici ( CD39 )



Cattura e blocco delle piastrine sulla superficie del vaso danneggiata.
Un ruolo molto importante è svolto dall’esposizione sulla superficie del vaso leso dei monomeri di collageno di tipo III presenti nella membrana basale dei vasi, oltre che dei restanti componenti della matrice extracellulare.
Il collageno tipo III in grado di legare quando esposto ai componenti del plasma al “ fattore di von Willebrand “ attraverso l’interazione tra la glicoproteina piastrinica VI con il collageno e del complesso piastrino formato dalla glicoproteina Ib-V-IX con il fattore di von Willebrand.

Interazione tra le piastrine
La conglomerazione di differenti piastrine è invece mediata dal legame dellì’integrina alfa IIb beta III con il fibrinogeno ed il fattore di von Willebrand.

Attivazione piastrinica

Una ulteriore via dia attivazione pietrifica è però giocata dalla sintesi del fattore tessutale.
Tale fattore tissutale è un analogo di recettori per le citochine presente sulla superficie cellulare sia monocitica, pericitica che endoteliale che è attivo se legato al fattore VIIa. Il fattore tessutale circola libero nel plasma formando microparticelle a struttura vescicolare del diametro inferiore a 100 nm. Tali microparticelle durante la formazione del trombo sono in grado di legare una selectina, chiamata selectina P, espressa dalla piastrine attivate, tramante un controrecettore della selectina P presente sulle microparticelle chiamato PSGL-1.
Il fattore tessutale esiste in due forme una latente che non ha attività procoagulante ed una attiva con attività coagulante. E’ probabile che la dimerizzazione, la riorganizzazione lipidica accanto alla trasformazione della struttura allosterica in particolare dei legami disulfuro presenti nel fattore tessutale influiscano sulla funzione  della proteina. L’enzima PDI rilasciato dalle piastrine e dall’endotelio attivato è in grado di ossidare i radicali tiolici presenti nella forma inattiva del fattore tessutale  e formare ponti disulfuro in grado di spiegare il cambiamento conformazione che permette al complesso fattore tissutale- fattore VIIa di legare e di solo con l’attivazione del fattore VIII e del fattore V, attivare il fattore X.
L’enzima chiamato “ protein disulfide isomerasi ( PDI )  è anche necessario per la rottura e la formazione di nuovi ponti disulfuro tra i residui di cisteina presenti sull’integrina piastrinica alfaIIb beta 3. Tale reazione biochimica è necessaria in quanto le piastrine legate all’endotelio subiscono un transizione di conformazione che aumenta l’affinità delle piastrine ai suoi legandi ( fibrinogeno e fattore di von willebrand ). Non è ancora chiaro il vero ruolo e l’importanza esercitata per l’adesione piastrina dal collageno e dal fattore di von Willebrand, ma è certo che quest’ultimo deve legarsi ad un’altra integrino  chiamata glycoproteina Ib.
Si formano quindi dei veri e propri complessi sinaptici tra le differenti piastrine conglomerate nell’intento di creare uno spazio interstiziale protetto interpiastrinico che stabilizza il trombo.
Tuttavia per formare trombina in quantità sufficiente sono necessari anche il fattore VIII e il fattore V che vengono tuttavia attivati dalla piccola quantità di trombina formata nei primi step di formazione della trombina localmente con formazione del fattore VIIIa e fattore Va.
La trombina è così in grado di scindere il fibrinogeno in fibrina formato un complesso enzimatico con fattore VIIa e successiva cattura delle piastrine con contemporanea lisi sulla superficie piastrina del suo recettore chiamato Protease Activated Receptor 1 ( Par1 ), effettore dell’attivazione pastrinica.
E’ interessante notare che in ratti non in grado di sintetizzare il recettore per la trombina Par4 riescono ugualmente a formare fibrina, anche se la trombina non si puo’ legare al recettore Par1. Tali dati suggeriscono che esistano altre enzimi proteolitici in grado di svolgere l’azione della trombina.


                                   


Le alterazione patofisiologiche che colpiscono gli arti affetti da TVP includono la cosiddetta Triade di Virchow:
infiammazione
Ipercoagulabilità
danno endoteliale
Tali modificazioni della emoreologia vascolare venosa portano ad attivazione di piastrine attivate, che rilasciano microparticelle. Tali microparticelle contengono i mediatori proinfiammatori in grado di legare i neutrofili, e stimolare il rilascio da parte di questi di materiale facente parte del nucleo cellulare e pertanto formare una rete extra cellulare chiamata " traps " extra cellulare di derivazione neutrofila.
Tali formazioni di materiale del nucleo di neutrofili contengono istoni in grado di stimolare l'aggregazione piastrinica e promuovere la generazione di trombina piastrino dipendente.
I trombi di origine venosa si formano e aumentano di dimensioni nel contesto di stasi venosa, bassa tensione di ossigeno, e aumento della trascrizione genica proinfiammatoria.

Stati protrombotici
Esistono situazione in grado di favorire la formazione di trombi venosi; fortunatamente tali situazioni sono abbastanza rare e sono rappresentate da:
mutazioni geniche del Fattore V di Leiden autosomico dominanti che causano resistenza a fattori coagulanti endogeni
mutazioni geniche della Proteina C in grado normalmente di attivare il fattore V ed il fattore VIII della coagulazione
mutazioni geniche del gene codificante per la protrombina, in grado di aumentare la concentrazione di protrombina.
Deficit di Antitrombina III normalmente inibitori della coagulazione
Deficit di Proteina S normalmente inibitori della coagulazione
Sono abbastanza rare e associate a TVE ( tromboembolia venosa )
La sindrome da anticorpi antifosfolipidi è la più comune delle forme acquisite trombofiliche ed è associata con trombosi sia arteriosa che venosa.
Fattori di rischio per la formazione di trombi venosi sono pure il fumo di sigaretta, viaggi aerei di lunga durata, inquinamento atmosferico, bronchite cronica ostruttiva, gravidanza, contraccettivi orali, terapia estrogenica sostitutiva.



Embolizzazione
Quando un trombo venoso si stacca dalla parete della vena dove si è formato, forma un embolo che è destinato a percorrere la circolazione venosa e pertanto raggiunge la vena cava, l'atrio di destra, e il ventricolo di destra. Da qui passa nel circolo polmonare arterioso, causando quindi la " Embolia Polmonare " acuta. Tali trombi talvolta attraverso un forame ovale pervio a livello atriale o un difetto del setto inter atriale possono embolizzare nel letto vascolare arterioso.

Diagnosi Clinica
La diagnosi clinica della Trombosi Venosa Profonda  è caratterizzata dal principale sintomo rappresentato dai “ crampi “ o  da “ dolore acuto al calcagno “ che persiste e si intensifica nel corso di alcuni giorni. Sono stati sviluppati degli “ score “ di stima della probabilita’ clinica  di Trombosi Venosa Profonda e di Edema Polmonare che tengono conto sia della sintomatologia accusata dal paziente che dei fattori di rischio presentati dallo stesso.
Tra questi score quello di Wells’ è forse quello piu’ utilizzato e piu’ validato clinicamente e permette di categorizzare i pazienti sospetti di TVP in tre gruppi:
con Wells 1 : probabilita’ basa di TVP
con Wells tra 1 e 2: probabilità media di TVP
con Wells 3 : probabilita’ elevata di TVP

Diagnosi precoce con Score di Wells
cancro in fase attiva  1
Paralisi e/o paresi o immobilizzazione prolungata 1
Piccola chirurgia > 3 giorni 1
Grossa chirurgia < 4 settimane 1
Localizzata dolorabilità del sistema venoso profondo 1
Gonfiore di tutta la gamba 1
Gonfiore del calcagno > 3 cm 1
Pitting edema 1
Vene superficiali collaterali 1
Storia di trombosi venosa 1
Età 1
Sesso femminile 1
Diagnosi alternativa - 2


Punteggio di Wells per TVP : punteggio > 3 probabilità alta
                                               punteggio 1-2 probabilità media
                                               punteggio 0  probabilità bassa

Il passo successivo è il dosaggio del D-dimero del fibrinogeno nel plasma e l’ecografia a compressione (CUS). Tralasciando per ora i problemi connessi con l’interpretazione corretta dei valori ottenuti dal dosaggio il cui valori di cutoff non sono ancore per nulla chiari essendo fortemente influenzati dal sesso e dall’età del paziente, si puo’ affermare a grandi linee che per i pazienti individuati come moderata di TVP  il passaggio successivo dovrebbe essere il dosaggio di un marker affidabile dell’avveduta trombosi venosa ( per ora i prodotti di degradazione del d-dimero ), mentre i pazienti individuati a probabilità elevata di TVP possono ovviare al dosaggio del D-dimero e devono essere sottoposti a ecodopler degli arti inferiori semplificato come test  di compressione in due punti significativi : alla femorale superficiale inguinale ed a livello della vena poplitea ( CUS test ).

Abbiamo già accennato alla scarsa attendibilità del dosaggio del D-dimero per la diagnosi di TVP. Attualmente il dosaggio è gravato da una elevata sensibilità e da una scarsa specificità, per cui da un gran numero di falsi positivi.
Abbiamo dei cult-off  che variano con l’età ed il sesso essendo piu’ elevato con l’aumentare dell’eta’ e nel sesso femminile.
I falsi positivi del D-dimero sono in effetti un problema di laboratorio importante. Molte patologie risultano positive al dosaggio del D dimero, anche la stessa gravidanza, tuttavia nel dubbio di una TVP, un valore di D dimero non  disabile e pertanto negativo esclude la presenza della trombosi venosa stessa.







Valutazione clinica del rischio trombotico
Tramite sistemi computerizzati di valutazione del rischio trombotico i pazienti sono assegnati a profilassi anti trombotica.

La valutazione del rischio viene stratificata su tre categorie:
rischio basso < 5%
rischio medio 5 -10 %
rischio elevato > 10 %

Fattori di rischio trombotico maggiori:
cancro
pregressa tromboembolia venosa
ipercoagulabilità : fattore V di Leiden, anticorpi antifosfolipidi lupici e anticardiolipina
Fattori di rischio trombotico medi:
interventi chirurgici
Fattori di rischio trombotico minori:
età avanzata
obesità
allettamento
utilizzo di terapia ormonale sostitutiva o anticoncezionale.



Terapia medica

La terapia anticoagulante è indicata nel trattamento del pazienti con trombo embolia venosa (VTE) per ridurre la probabilità di ricaduta di trombosi venosa profonda (TVP) come pure di embolia polmonare (EP).
Più di una generazione di medici hanno avuto a che fare con il trattamento della TVP acuta che utilizzava la terapia anticoagulante per un breve periodo di tempo, usualmente 3.5 giorni ( bridging therapy ) con eparina per via parenterale a basso peso molecolare che veniva sovrapposta al vero e proprio trattamento con antagonisti della K come la warfrina.
Visto la rapida espansione delle conoscenze  sulla eziopatogenesi ed il trattamento della tromboembolia  venosa, risulta importante ed essenziale considerare attentamente come trasportare i nuovi dati scientifici nella pratica clinica.
Gli anticoagulanti (NAO) diretti hanno diversi vantaggi farmacologici nei confronti degli antagonisti della vitamina K, tra i quali una più ampia finestra terapeutica, un inizio di azione rapido, e una emivita più breve che è compresa tra le 7 e le 14 ore in individui sani. Gli anticoagulanti orali diretti sono somministrati a dosi fisse agli adulti senza necessità di monitoraggio con esami di laboratorio; pertanto sono più convenienti della warfrina che richiede il monitoraggio dell' International Normalized Ratio e periodici aggiustamenti del dosaggio. In studi randomizzati con un buon monitoraggio del dosaggio della warfrina, gli anticoagulanti diretti si sono dimostrati non inferiori alla warfrina nel ridurre le recidive di eventi trombotici e addirittura hanno ridotto del 28 % gli episodi di sánguinamento maggiore e del 50% le emorragie intra craniche e fatali.
Diversi studi clinici hanno esaminato l’efficacia dei nuovi anticoagulanti orali, che agiscono inibendo la trombina o il fattore  Xa della cascata della coagulazione.
Purtroppo il sistema nazionale italiano richiede che la prescrizione di tali farmaci per il trattamento della TVP venga effettuata solo dopo valutazione internistica specialistica o di chirurgo vascolare e previa redazione di Piano Terapeutico della validità di 6 mesi al massimo. Non così avviene per il trattamento post chirurgico in seguito a protesi d'anca o del ginocchio dove non è necessario piano terapeutico.

Nello studio RE_COVER i ricercatori nel 2009 hanno valutato la non-inferiorità  di un inibitore diretto della trombina, chiamato DABIGATRAN, sulla  WARFARINA studiando 1274 pazienti affetti da trombosi venosa profonda  o embolia polmonare. I pazienti erano inizialmente trattati per almeno 5 giorni con anticoagulanti per via parenterale ( eparina  frazionata ) e susseguentemente ricevevano o DABIGATRAN o WARFARIN.
Non erano presenti differenze significative tra i due gruppi negli obbiettivi primari composti dello studio che consideravano l’incidenza del ricorso di eventi di trombo embolia venosa sintomatica o decessi causati dalla trombo embolia dopo 6 mesi di terapia.
Non c’erano differenze significative negli episodi di sanguinante maggiorata i gruppi, sebbene l’incidenza di sanguinolento maggiore o di sanguinamento minore clinicamente rilevante era ridotto nei pazienti trattati con DABIGATRAN,
DABIGATRAN, un inibitori diretto del trombina, è stato approvato per l’uso negli Stati Uniti nel 2010 per la prevenzione dello stroke nei pazienti con fibrillazione atriale; tale procedimento è stato rapidamente seguito dall’approvazione degli inibitori diretti del fattore Xa della coagulazione come il RIVAROXABAN, l’APIXABAN  e l’ENDOXABAN nel giro di 5 anni.
Nello studio EINSTEIN-DVT, sono state paragonate l’efficacia clinica e la sicurezza del RIVAROXABAN, un inibitori orale del fattore Xi della coagulazione, con gli antagonisti della vitamina K in 3.449 pazienti da tromboembolia venosa profonda acuta sintomatica. I pazienti venivano divisi in due gruppi scelti a random, un gruppo trattato con dosi fisse di RIVAROXABAN, e un gruppo trattato con antagonisti della Vitamina K preceduta da una “ bridging therapy “ di 3 -4 giorni con eparina frazionata a basso peso molecolare.
Il Rivaroxaban non è risultato inferiore agli antagonisti della vitamin K per prevenire la tromboembolia venosa. Nessuna differenza significativa è stata osservata negli eventi primari di sanguinamento maggiore or minore clinicamente rilevanti.

Nel complesso tali evidenze scientifiche indicano che tali nuovo anticoagulanti orali sono efficaci e sicuri come la WARFARINA o antagonisti della vitamina K similari. Inoltre tali farmaci hanno dimostrato un profilo di sicurezza farmacologica simile se non addirittura superiore, e pertanto possono essere considerati una sicura alternativa alla WARFRINA nel trattamento della tromboembolia venosa acuta.

La spinta per lo sviluppo di tali farmaci proviene dal massiccio uso che si è fatto in questi anni di farmaci anticoagulanti disponibili anche per il trattamento ambulatoriale, vale a dire delle eparina frazionate sottocutanee e degli antagonisti orali della vitamina K. sebbene tali farmaci rappresentino un importante sviluppo della terapia anticoagulante, dubbi sul loro effettivo utilizzo in terapia provenivano dall’assenza, fino a poco tempo fa di antagonisti o antidoti che potessero contrastarne l’azione in caso di sovradosaggio.
Sebbene l'attività della warfrina sia prontamente bloccata dagli analoghi della Vitamina K, dal plasma fresco, da concentrati del complesso protrombinico, gli eventi emorragici maggiori che avvengono in pazienti trattati con warfrina spesso portano a morte. Circa il 10% dei pazienti ospedalizzati per emorragia dovuta all'uso di warfrina muoiono in 3 mesi, e la mortalitá tra i pazienti con emorragia intra cranica di può considerare pari al 50%.  L'alta mortalità è in parte attribuitile alle condizioni coesistenti in tali pazienti. Dati sperimentali suggeriscono che agenti non specifici come concentrati di complessi protrombinici o il fattore VIIa ricombinante possono ridurre l'effetto anticoagulante  degli anticoagulanti diretti in vitro, in modelli animali e in volontari umani. D'altra parte tali sostanze sono di non provata efficacia nel migliorare l'emostasi in pazienti con emorragia grave e trattati con anticoagulanti diretti possono comportare un aumento del rischio di trombosi.



La necessità di antidoti  d’altra parte era stata prontamente avvertita. Due candidati come farmaci antidoti , ADNEXANET ALFA  e CIRAPARATANG sono in svariato stadio di sviluppo, e nell’Ottobre del 2015 , IDARUCIZUMAB, un anticorpo monoclinale umanizzato grado di riconoscere come antigene legare il DABIGATRAN, è stato prontamente approvato dall’FDA per l’utilizzo negli USA.

l’ANDEXANET alfa rappresenta un eccitante nuovo approccio all’inibizione dei farmaci anticoagulanti, La tecnologia ricombinante  genetica è stata utilizzata per creare una molecolare simile al fattore Xa modificata con una mutazione nel sito catalitico in grado di abolire l’attività procoagulante del fattore Xa ma mantiene la struttura nativa. Ciò permette agli inibitori del fattore Xadi legarsi con con grande affinità ed effettivamente neutralizzare la loro attività anticoagulante.Le dimensioni della molecola sono inoltre state sviluppate in modo da prevenire l’interazione con altri fattori della coagulazione.
Tale molecola è pertanto in grado di legarsi sia direttamente agli inibitori del fattore Xa, come il RIVAROXABAN, APIXABAN, EDOXABAN  sia agli inibitori del fattore Xa che agiscono tramite l’antitrombina vale dire al FUNDAPARINUX ed alle EPARINA DI BASSO PESO MOLECOLARE.

Nel 2000 al 2010 trials clinici hanno dimostrato ed evidenziato le linee guida per il trattamento delle malattie vascolari periferiche arteriosclerotiche e della trombosi venosa.
La prossima decade dal 2010 al 2020 ci aspetta con nuove scoperte nel trattamento volto a ridurre il rischio di nuovi eventi arteriosclerotici, di inibire la crescita degli aneurismi aortici, migliorare i sintomi delle malattie arteriose periferiche, e migliorare la prognosi dei pazienti affetti da trombosi venosa ed embolia polmonare.
Possibili vie da investigare sono in particolare l’interazione delle microparticelle contenti il fattore tessutale rilasciato dai macrofagi o dalle cellule tumorali e le piastrine. In particolare si potrebbe ipotizzare l’inibizione del legame tra la selectina P e il recettore PSGL-1 nel tentativo di bloccare l’accumulo delle microparticelle derivati dai monoliti nello sviluppo del trombo. Altro punto debole potrebbe essere il blocco del fattore XI. Tale razionale terapeutico sarebbe in particolare utile nel caso di integrità dell’endotelio e nelle forme di trombosi legate al cancro.
La terapia ideale per la trombosi venosa profonda dovrebbe essere in grado di inibire il processo di formazione del trombo senza alterare l’emostasi





Bibliografia

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Tuesday, March 27, 2012

Understanding mineralization process: the role of TNSALP and Matrix Vescicles.

  

Alkaline phosphatases

Alkaline phosphatase (ALP) was discovered in 1923 by Robert Robinson in young rats and rabbits within ossifying bone and cartilage. However , never Robinson referred to this enzyme as “alkaline” phosphatase, term introduced only later. For most of the past eight decades physicians have recognized the important clinical insight that can come from measurement of ALP activity in serum. Detection and monitoring of hepatobiliary and skeletal disease are generally possible. In fact, since 1930 ALP detection and quantification in serum has been routine in hospital laboratories.

Nevertheless, the physiologiocal function of ALP, is largely unknown.

At the end of 1960s, electron microscopy helped to rejuvenate Robinson’s hypothesis, when the earliest site of hydroxyapatite crystal deposition in the developing skeleton was noted by E. Bonucci and HC Anderson to be within novel extracellular structures called matrix vescicles (1969). These vescicles were found to be rich in ALP activity and later they have been demonstrated to be replenished by many enzymes and constituents such as:

  1. Inorganic pyrophosphatase (PPi-ase)
  2. ATPase
  3. phospholipids
  4. polysaccarides
  5. glycolipids

During early phase (primary) of mineralization , hydroxyapatite crystals appear and grow within these structres. Soon after , the vescicles rupture and extravescicular (secondary) mineralization occurs as crystal propagation continues.

Actually the proposed biological roles of ALP in mammals are numerous including:

- hydrolysis of phosphate esters to supply the nonphosphate moiety

- transferase action for the synthesis of phosphate ester

- regulation of Pi metabolism

- maintenance of steady-state levels of phosphoryl metabolites

- action on phoshoprotein pshosphatases

-

At plasmamembrane level it has been proposed that ALP can function not only such as an active P transporter but also for:

- calcium muvement regulator

- Na+/K+ exchange regulator

- Fat exchange

- Protein exchange

- Carbohydrate exchange

Interestingly sequence analysis of ALP demonstrated that this enzyme can be coupled with other proteins, for example adhering to collagen, and it has been suggested that this physical property of ALP should be considered when we examined the action for example of ALP on skeletal matrix such as phosphoprotein phosphatase.

It has to be outlined that ALP function mainly such as a cell surface enzyme, but at some stages during embryo formation ALP may acts also intracellularly.

The role of ALP in skeletal mineralization should be resumed considering ALP as “inhibitor” of pyrophosphate deposition (a potent inhibitor of hydroxyapatite formation):

  1. Locally increase P concentration
  2. Destruction of inhibitors of hydroxyapatite crystal growth
  3. Transport of P
  4. Calcium binding protein ( used by cells such as uptake enzyme for calcium)
  5. Ca++/Mg++ ATPase
  6. Tyrosine specific phosphoprotein phosphatase

Recently these different activities previously attribute only to Alkaline Phosphatase activity, have been studies in more details.

It is interesting to note that in normal adolescents 13 to 14 years old pyridoxal-5-phosphate concentrations have been reported to be approximately 40 nmol/L, also if this developmental stage is associated with high alkaline phosphatase activity. Low levels of Pyridoxal-5-phosphate are also observed in patients with hypophosphatemic rickets and the researchers attributed this data to increased activity of alkaline phosphatase enzymes. However most of alkaline phosphatase values are within the normal range for children. It has also been suggested the presence of so called “functional hypophosphatasia” in patients affected by renal osteodystrophy were normal alkaline phosphatase levels are coupled with high serum inorganic phosphate levels. In other words in these pathophysiological conditions no correlation exists between alkaline phosphatase activity and pyridoxal-5-phosphate concentrations. However in these conditions plasma levels of inorganic phosphate are also higher than normal suggesting that the main factor in decreased pyridoxal 5 phosphate concentration would be low phosphate concentration rather than high levels of alkaline phosphatase.

An emerging role in Pyrophosphate production has been recently attributed to Ectonucleotide Pyrophosphatase/phosphodiesterase 1 (NPP1), previously referred such as plasma cell membrane glycoprotein 1. This enzyme has been found in mineralizing tissues such as bones and teeth. Mutations in NPP1 cause the generalized arterial calcification of infancy due to inability of vascular cells to form pyrophosphate. Moreover, mutations in NPP1 have also been reported as a second cause of autosomal recessive Hypophosphatemic Rickets, the first being attributed to mutations in Dentin Matrix Protein 1 (DMP1). The role of NPP1 would be the hydrolyis from Adenosine Triphosphate (ATP) of Pyrosphosphate. NPP1 clearly has a role in PPi generation at the level of chondrocyte and osteoblast membranes, whereas at level of Matrix Vecicles NPP1 does not use ATP efficiently.

Another pathway for generation of pyrophosphate production is the secretion from cells by the transmembrane spanning cell surface protein Ankylosis Human homologue of the mouse progressive ankylosis protein (ANKH). Two autosomal dominant human diseases have to date been reported:

- Craniometaphyseal Dysplasia

- Chondrocalcinosis-2

Data conerning the possible presence of an autosomal recessive form linked to a mutation on exon 6 of the 12 exons constituting ANKH gene has to be clarified by further studies. Anyway ANKH protein seems to be important for mediating intracellular to extracellular channeling of pyrophosphate.

Interestingly another protein called Phosphatase PHOSPHO-1, first identified in chick as a member of the haloacid dehalogenase (HAD) superfamily of Magnesium dependent hydrolases, is expresed at levels 100-fold higher in mineralizing tissues compared to nonmineralizing ones. PHOSPHO-1 shows high phosphohydrolase activity toward Phosphoetanolamine (PEA) and Phosphocholine (PCho); it is active inside chondrocytes and osteoblast derived Matrix Vescicles. The role of PHOSPHO-1 is to maintain the concentration of inorganic Pyrophosphate (PP i) so that the ratio of inorganic phosphate to inorganic pyrophosphate would be permissive of a normal mineralization process. Inside Matrix Vescicles (MV) soluble phosphatase PHOSPHO-1 , with specificty for phosphoethanolamine and phosphocholine, increases the local intravescicular concentration of inorganic phosphate (P i) to change the Pi/PPi ratio in favor of precipitation of hydroxyapatite seed crystals.

In summary given the role of FGF23/Klotho pathway in inorganic phosphorus metabolism, as well’s of Vitamin D3 metabolites, more important role should be attributed to inorganic phosphate concentration that to enzymatic phosphatase activity for study derangements in bone mineralization.

ALP is found in nearly all plants and animals. In humans, four ALP isoenzymes are encoded by four separate genes. Three of these are expressed in a tissue-specific manner are they are called:

- placental

- intestinal

- germ-cell (placental-like)

- Tissue Non Specific

The fourth ALP isoenzyme is ubiquitous, but expecially abundant in hepatic, skeletal and renal tissues (liver/Bone/kiney ALP) and it is called tissue non specific ALP (TNSALP). Interestingly TNSALP is a family of “secondary” isoenzymes (isoforms), with the same polypeptide sequence, encoded by one gene (TNSALP) but different each other only by posttranslational modification involving a different glycosylation pattern (carbohydrate). TNSALP is located on chromosome 1p36.1-34 near the end of shot arm; the genes coding for placental, intestinal and germ-cells ALP are found near the tip of the long arm of chromosome 2q34-37. The TNSALP chromosome structure is represented by 12 exons, 11 of which are translated into a 507 aminoacid nascent enzyme. The promoter region of TNSALP is located within 610 nucleotides 5’ to the transcription start site and it contains TATA box and an Sp1 binding site acting as regulatory elements. It is believed that basal levels of TNSALP expression reflect inherent “housekeeping” promoter effects, whereas differential expression in various tissues should be mediated by a postranslational mechanism. Interestingly 5’ untranslated region differ between the bone and liver TSNALP isoforms. From phylogenetic point of view, the TNSALP should represent an ancestral gene, whereas the tissue-specific ALPs is likely originated from a series of gene duplications. Human ALP isoenzymes gene sequence indicates that the nascent polypeptide has a short signal sequence of 17 or 21 aminoacids residues and a hydrophobic domain at its c terminal site. The active site is coded by six exons and it is composed by 15 aminoacid residues with a nucleotidic sequence well conserved throught nature. ALPs is a metalloenzyme linking Zinc atom, the link of Zn++ atom stabilizes the tertiary structure. In summary the structure of these enzymes is formed to link a dinuclear metal cofactor structure so that a common cathalytic mechanism for enzymes involved in phosphotransfer reactions has been identified involving spin-coupled metal binding site formed by a scaffold structure at active metal linking site constituted by the same repeated tertiary spatial construct.

Β sheet – α helix - Β sheet - α helix - Β sheet

The 3 β strands of this structure form a parallel sheet that is capped by intervening α helices. Two metal ions are positioned at the apex of this fold forming a dinuclear metal center with 3.0 - 4.0 Ǻ between metal ions, with 4 of the metal ligands provided by residues in the loops between β sheets and α helices. ALP in E. Coli has been extensively studied and a Mg++ with a Zn-Zn dinuclear center reminiscent of the dinuclera metal site of seine/threonine phosphatase has been identified. In E.coli His 372 forms an hydrogen bond with Asp 327 , an aminoacid involved into didentate Zn stabilization) and it is thought to lower the pKa of the Zn atom involved to binding a water molecule. Cathalytic activity require multimeric configuration of identical subunits, each monmer having an active site and two Zn atoms. The role of Zn atoms is probably those of allowing the formation of a nucleophil reactant by hydroxyl group of serine residue located on cathalitic site, that attract the phosphoric group disrupting the esteric link. The mechanism of enzymatic reaction in ALP present in E. Coli has been elucidated for phosphate ester hydrolysis forming first an intermediate phosphoenzyme. In particular ALP of E. Coli cathalizes the transfert of phosphoryl group throught the formation of a transient link with a Serine residue located on active catalitic site. Later this phosphate group is released and the cathalitic site left free to react with anoter phosphoester group. If ALP in serum is present as a dimer with α/β topology with a 10 –stranded beta sheets in its center, ALP at membrane level is linked as a homotetramer. ALP is linked to plasmamembrane surface, through a polar head group of a phosphatidylinositol glycan and it can be released by a specific phospholipase. Intracellualr degradation of ALPs can involve proteasomal structures. Release from plasma membrane could involve phosphatidase C or D.

Clearance of circulating ALP, as for many plasma proteins is assumed to occur via uptake by the liver.

Whereas in children ALP plasma activity is mainly of bone origin and the remaining is of intestinal isotype; interestingly an old data report that blood type (0 and B are secretors) influences the level of placental isoenzyme of ALP in the blood after an ingestion of a fatty meal. In adult blood, ALP activity reflects equal amounts of hepatic and bone isotypes. Interestingly only recently on 2000 the crystal structure of placental isoform of ALP was isolated and studied on X ray crystallography.

TNSALP has a major role in two kind of reactions involved into mineralization process:

- Pyrophosphatase : hydrolizing pyrophosphate into two inorganic phosphate ions

- ATPase/ADPase: hydrolizing Adenosin triphosphate into Adenosin bisphosphate and one molecule of inorganic phosphate.

Accordingly TNSALP partecipates in the calcification process both by restricting the concentration of extracellular inorganic pyrophosphate PPi and by contributing to the inorganic phosphate (Pi) pool available for calcification.

ATP > ADP > AMP + 2 Pi

PPi > Pi

The working model in bone and cartilage supposed that bone mineralization is first initiated within the lumen of Matrix Vescicles (MVs). In a second time, hydroxyapatite crystals grow beyond the confines of the MVs and become exposed to the extracellular milieu, where they continue to propagate along collagen fibrils. Hydroxyapatite seed crystals are formed in the sheltered interior of MVs favored by the Pi-generating activity of PHOSPHO-1 fosfatase enzyme,as well’s by the transport function of Pyrophosphate (PPi) transporters, such as ANKH. The keys rate limiting step seems to be the ratio between Pi/PPi concentrations:

Pi/PPi > Mineralization

In other words an increased concentration of inorganic pyrophosphate (PPi) inhibits the crystalization process of hydroxyapatite, whereas increase increased concentration of inorganic phosphate ions (Pi) promote both crystalization and nucleation processes.

 

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Human diseases characterized by an abnormal decrease or increase in ALP blood levels are called respectively:

- Hypophosphatasias

- Aphosphatasia

- Hyperphosphatasias or Paget disease of bone

- Familial Expansile Osteolysis

- Expansile skeletal Hyperphosphatasias

- Early onset Paget’s disease of bone in Japan

- Hereditary Hyperphosphatasia (Juvenile Paget’s disease)

Hypophosphatasia

In 1948 a Canadian pediatrician John Campbell Rathbun coined the term hypophosphatasia reporting a boy who developed and died from severe rickets with epilepsy, whose ALP activity in serum, bone and other tissues was paradoxically subnormal.

Present in all races, however this condition is expecially frequent in inbred Mennonite families from Mannitoba, Canada, where about 1 every 25 individuals is a carrier and 1:2500 newborns manifests severe disease.

Six forms of hypophosphatasias have been individuated, the earlier is the presentation of symptoms and more severe is the skeletal disease and the biochemical manifestations:

  1. Perinatal : autosomal recessive
  2. Infantile : autosomal recessive
  3. Childhood : autosomal dominant or recessive
  4. adult: autosomal dominant or recessive
  5. odontohypophosphatasia: autosomal dominat or recessive
  6. pseudohypophosphatasia

Laboratory findings include elevated values of phosphoethanolamine, pyridoxalphosphate, inorganic pyrophosphate.

Hypophosphatasia is a rare heritable disordercaused by a loss-of-function mutation in the ALP gene encoding for the tissue non specific alkaline phosphatase (TNSALP). It is characterized by deficiency in serum and bone alkaline phosphatse and defective bone and tooth mineralization.

Nearly all babies with perinatal hypophosphatsia die in utero or shortly after birth.

Those with infantile form present before 6 months of age with rickets, failure to thrive, or vitamin B6-dependent seizures, and approximately 50% die for respiratory failure because of poor lung development or progressive hypomineralization of the rib cage.

Adult hypophosphtasia typicaly manifests during middle age as recurrent, slowly healing metatarsal fractures, followed by painful nonhealing proximal femur fractures or pseudofractures.

The bone symptoms are highly variable in their clinical expression, which ranges from stillbirth without mineralized bone to pathological fractures developing only late in adulthood.

Odontohypophosphatasia is characterized by premature exfoliation of primary teeth with roots intact and/or several dental caries, not associated with abnormalities of the skeletal system.

Severe forms of the disease such as perinatal and infantile forms are transmitted as an autosomal recessive trait, whereas both autosomal recessive and autosomal dominant transmission may be found in milder forms, especially odontohypophosphatasia.

The tissue nonspecific ALP (TNSALP) gene is localized on chromosome 1p36.1 and it consits of 12 exons distributed ober 50 Kbases. More than 160 mutations have been described to date in the TNSALP gene. In North American, Japanese, and European patients, indicating a very strong allelic heterogeneity in the disease. This variety of mutations results in highly variable clinical expression and a great number of compound heterozygous genotypes with missense mutations that account for 82% of mutations. The remaining mutations are:

- missense mutations (82%)

- microlesions (11%)

- splicing mutations (4%)

- nonsense mutations (3%)

- a nucleotide substitution on major transcription initiation site

- a denovo mutation on heterozygous carrier of a missense mutation

The affected individuals carry one or two loss-of-function mutations within the TNSALP gene alleles. This experiment of the nature, inherited as either an autosomal dominant or autosomal recessive trait, reveals a crucial role for TNSALP in skeletal mineralization. There is no established medical treatment for hypophosphatasia. Augmenting circulating alkaline phosphatase activity into or even above the normal range for several months using intravenously administered ALP from various tissues sources has had no convincing beneficial effects. Also transplantation therapy with cultured osteoblasts and bone fragments was quite unsuccessful and experiments suggested that we must lower PPi at mineralization sites. Accordingly TNSALP activity must be increased at mineralization sites more than at plasma level.

Recently a recombinant fusion protein including TNSALP ectodomain, the constant region of IgG1 Fc domain, and the terminal deca-aspartate motif has been admnistered in 11 patients with perinatal or infantile forms of hypophosphatasia. Treatment was associated with healing of skeletal manifestations of hypophosphatasia as well’s with improvement in respiratory and motor functions. Improvement is still being observed in patients receiving treatment for more than 3 years.

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Thanks to Ivy for her support.

 

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